La parola essenziale

La poesia di Rigato si colloca in un universo rarefatto nel quale residui di realtà, relitti dell’ordinario e del pesante, e memorie di essi, vengono strappati verso l’alto dalla loro sede, dalla loro funzione economica ed utilitaristica, fino a sfilacciarsi e a scomparire. In quel universo, nel quale l’abitudine, l’avidità, la folla, il chiasso, la rappresentazione insomma, non è più neanche un ricordo, il verso di Rigato si libra in associazioni lente, inusitate, di pura invenzione, con le quali egli cerca “di inventare fiori nuovi, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue.” (Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno).

“Angelo o mago” che sia (ancora Rimbaud), Rigato saggia e scombina i limiti e i confini della parola e della sintassi in un sentire quieto ai limiti del civile comprensibile, ed oltre; nell’oltre dell’inesprimibile che è la durata bergsoniana, l’impossibile misura del tempo sospeso dell’estasi e del gioco: “ silenzi che suonano la resa del tempo.

Il suo stato mentale, la sua immaginabile postura fisica, potrebbero farlo assomigliare, ad un primo sguardo, al personaggio solo nelle Piazze d’Italia di De Chirico, con quel tanto di mistero che è nello spaesamento, nell’attesa. E’ lo stesso uomo, quello, che ad un certo punto (della Piazza?; del tempo?) si accorge della inutilità di quella attesa, e con in mano “…una valigetta corre / ma non sa più dove”.

Ma, Rigato non è quel personaggio. Rigato: è lui, l’assente: “Nessuna traccia di me / nei registri dell’anagrafe”; e quel paesaggio della malinconia, e dell’inappagato desiderio, e della vana corsa per “sentieri tortuosi”, è oramai non altro che quel residuo di banale realtà che lui ha lasciato sotto di sé per involarsi, oltre il mistero, verso la certezza del disimpegno materiale e della meditazione.

E’ quel disincaglio dal porto delle venali speranze, quel veleggiare che Mallarmé, nel suo “Saluto”, evoca così:

Noi navighiamo, o miei diversi
Amici, io già sulla poppa
Voi sulla prua ch’apre alla rotta
Flutto di folgori e d’inverni;
Un’ebbrezza bella m’ingiunge
Senza temer beccheggio lungo
Di levar alto questo salve
Solitudine, scoglio, stella
A non importa ciò che valse
La cura bianca della vela.

Se ho ricordato qui sopra Rimbaud e Mallarmé, è perché risulta evidente in Rigato un debito stilistico nei confronti del Simbolismo francese e, ancor più, dell’Ermetismo novecentesco, che è, si può dire, figlio di quello, e della trascendenza.

Materia simbolica e trascendente, infatti, i versi di Rigato, con una tensione spirituale che ricorda, anche se per altra ragione e religione, la poesia di Mario Luzi.

Una spiritualità fatta di sensi-silenzi siderali (“Vibrano respiri d’amore / nei silenzi che conversano.”) e di fusione primigenia con l’universo tutto (“Vedi quella stella laggiù? / Sussurra che eravamo qui prima del tempo / dice che l’ossigeno nei polmoni / è frammento di supernove.”), così come già nel panteismo del Bruno; con un porsi salvifico della astensione, della inoperosità, della disarmata apertura del sé, dato che “Siamo la breccia che colora i peschi / nell’ultima città in rovina.

Per i tempi difficili che corrono, (ma quando non sono stati difficili?), si potrebbe rimproverare a Rigato, alla sua poesia, dico, l’assenza di “impegno civile”, di esplicite espressioni di protesta nei confronti delle diseguaglianze sociali, razziali, sessuali, ecc., contro inganni, vizi, guerre e genocidi, e di tanto altro ancora che rende la vita individuale e collettiva disagiata e precaria.

Si può chiedere questo alla poesia? Magari anche si: ad esempio, nella storia della letteratura, Giovenale con le sue Satire, Dante e Shakespeare, solo per fare tre esempi tra i più grandi. E’ quello in effetti un registro della poesia che percorre tutti i tempi, e che trova notevoli interpreti anche nella poesia Italiana del secondo dopoguerra.

Se non si può dire un “racconto popolare” alla stregua di un Pasolini, un Pagliarani, un Balestrini, la poesia di Rigato percorre comunque un tragitto che corre tangenzialmente a quello. Non un viaggio rettilineo e finito verso una idea-meta a distanza misurabile, che era il desiderio militante di un riscatto collettivo da una condizione di minorità e da una prevista massificante omologazione, ma un cerchio, o forse, meglio, una spirale (“curvature e flessioni / abbandoni che tornano in cerchio.”), nella quale il lasciarsi andare, l’abbandono, consiste nell’esperienza della Illuminazione, vale a dire il toccare, “senza agire”, l’infinita profondità dell’IO pensante dinnanzi alla “porta del possibile”.

Consapevole di una civiltà malata ed irrecuperabile, il suo è un coraggioso “slancio prima del crollo”; uno slancio per il quale, tutt’intorno, diviene “un primo di marzo / che arma legioni di margherite / e fili d’erba nel cemento”; è già quel oltre realizzato qui e ora attraverso l’astensione e la meditazione.

E, niente “valigette” per il viaggio di Rigato. Il suo è un viaggio nudo, nel quale poche cose del presente, scie di ricordi belli (“Una donna passa con la frutta sulla testa… “; “Un sax remoto e febbrile / strappa nervature al silenzio.”), si sintonizzano nel silenzio col “… ritmo arcaico del gioco / dove il corpo è parola / il movimento è dialogo.”.

Questo, invocato da Rigato, è l’universo dell’arte; un “teatro vuoto / scroscio di silenzi / drappi sospesi.”, nel quale gli attori del niente si augurano “Che la danza porti / che il suono segni / che il cerchio si allarghi / che il battito crei.

Il “passo lento” di quel viaggio è l’antidoto che depura a poco a poco il corpo “schiacciato da ricordi / a valore incerto / d’argento e catrame.”. E’ il “passo lento” che, magicamente, introduce al “sentire arrivare”; ed ecco, d’improvviso, eccoci: “meraviglia”: “plotoni di primavere / tramano un nuovo assalto”, “ricompongono ellissi”, ci rivelano quel cerchio, incerto ancora, (ma, “cos’è?”): pare la meravigliosa ruota-giostra del luna park della nostra infanzia, vista da lontano, e per noi e per gli amici, sulla quale avremmo voluto abbandonarci, esilaranti, per sempre.

Le parole di Rigato sono visioni; visioni che emergono talvolta da impressioni, “un suono dal mare”, “un piatto che cade”, “nubi basse”, “campi di girasoli”, “Sferragliare di treni”, “motel senza nome”, nelle quali interviene tuttavia un corpo iper-sensitivo che trasfigura il quotidiano in figure senza forma, in un caleidoscopio riflessivo e vagante nel quale si fondono sinesteticamente, in un universo di invenzione, tutti i sensi, (“la città mi attraversa senza peso”), come in La città che sale di Boccioni.

Altre volte è la sola potenza della parola che parla di sé a costruire verità inusuali, nascoste nella stessa parola della norma, nell’ordinario costrutto grammaticale, paradossali: “polvere di passi / che non toccano terra”, o, ancora, “Vibrano respiri d’amore / nei silenzi che conversano”.

Ed è proprio il paradosso la figura retorica che avvalora i versi di Rigato. Infatti, il suo procedere è in realtà uno stare fermo, è una comprensione sul posto, puro movimento del pensiero animato dalle parole, le quali ci dicono che la verità sta “nel ritmo arcaico del gioco / dove il corpo è parola / il movimento è dialogo.

E’ dunque la parola dialogante che muove; che muove contro l’automatismo cinetico ammaestrato, alienato, dell’uomo della folla come nell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe.

L’avanzare discorsivo ed evanescente di Rigato ha un suo inizio, ed è la accoglienza consapevole, “Come una coppa vuota / che già conosce l’acqua”.

Una consapevolezza che è non solo istinto delle cose, di una loro recondita ancestrale natura spirituale (“La tua ombra è più antica del tuo corpo.”), ma anche cultura: “Ho scritto una mappa di vita / nelle pagine stropicciate dei classici”. Pagine stropicciate, rese essenziali dal filtro dello studio, forse ridotte ad una sola parola, come nei Libri cancellati di Emilio Isgrò, o ad un solo punto, innominato e perplesso, come in certe opere di Giulio Paolini.

E non solo classici. Per sua formazione, scolastica e accademica, Rigato ha acquisito ed assimilato competenza tecnico-scientifiche di primordine, le quali entrano nei suoi versi nei termini di una seconda presenza, con quel tanto di verità scientifica usata “fuori luogo”, paradossalmente, appunto. Così, ad esempio “Betelgeuse pulsa e mi guarda”, richiamando qui, con “Betelgeuse”, non tanto, semplicemente, il fatto astronomico (Stella α della costellazione di Orione, di grandezza apparente variabile tra 0,5 e 1,1), quanto il potere magico attribuito dagli antichi a quel astro.

E di citazioni tecnico-scientifiche nei versi di Rigato ce ne sono molte: dalla fisica di Minkowski al codice Kryphós, dall’Antimateria alle Leggi di Maxwell, dal Punto Omega all’unità di misura astronomica del Parsec, ecc.; tutte sempre giocate poeticamente a personificare oggetti e concetti, e a metterli in dialogo col presente/assente dell’IO, che intanto viaggia per conto suo, e per conto nostro, nel silenzio dialogante ed essenziale.

Dionisio Gavagnin
Roncade, 28/05/2025